Campania felix, la chiamavano i Romani. Per la fertilità del suolo, per la bellezza del paesaggio, per la mitezza del clima. E, ovviamente, anche per la piacevolezza della vita che un posto così favorito dagli dei permetteva di condurre. Non solo Tiberio, dunque, che di Capri fece il suo personale santuario, ma tantissimi patrizi romani elessero questa parte d’Italia a simbolo della loro dolce vita.
E, come si desume dalle citazioni di Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia (primo secolo d.C.) la vite e il vino erano già tra gli artefici della felicità di questa terra.
Ai giorni nostri, in Campania è in atto una vera e propria riscoperta di uve che erano già note al tempo dei nostri illustri progenitori. Vitigni per secoli dimenticati e trascurati, oppure confusi l’uno con l’altro, hanno ritrovato precise identità, documentate da analisi di laboratorio sul DNA.
Vini, quindi, antichi ma al tempo stesso giovani, soprattutto se vinificati in purezza: ogni vendemmia è ancora una sorpresa o una conferma. Prendiamo il Caprettone del Vesuvio (a bacca bianca), per secoli assimilato al più noto Coda di Volpe e così chiamato per la forma allungata del suo grappolo, che ricorda la barbetta di una capra. Le sue vigne affondano le radici nella terra lavica del Vesuvio, dalla quale traggono una ineguagliabile mineralità e la possibilità essere impiantate su piede franco (ossia senza portainnesto) perché questo tipo di terreno è immune dal contagio della fillossera. Il tutto nell’ambito di un microclima unico, influenzato al tempo stesso dall’altitudine, dalla vicinanza del mare e dalla presenza del vulcano.
È il primo vitigno della zona a essere vendemmiato (a volte, anche prima dalla festa di San Gennaro, 19 settembre) per non disperderne un’acidità ottimale a garantire un bagaglio aromatico più complesso e un buon nerbo. Il vino che ne deriva, di colore paglierino scarico, possiede aromi delicati di gelso, albicocca e ginestra: vini, in altri termini, di sorprendente complessità, tra i quali un particolarissimo metodo classico.
Oppure il Pallagrello, in versione a bacca bianca e a bacca nera, così detto per la forma perfettamente sferica degli acini: in pratica delle pallarelle, ossia delle palline. Qui siamo in provincia di casera, sulle pendici del Matese. Fino a qualche anno fa, il vitigno era poco curato, usato in prevalenza per vini da taglio. E pensare che, nell’Ottocento, i Borboni lo avevano incluso nella mitica vigna del Ventaglio, dove si allevavano una decina di cultivar, le più pregiate, riservate ai banchetti di corte e a omaggiare ospiti coronati. Oggi, ancor pochi, ma lungimiranti, vitivinicoltori producono ottime di bottiglie di Pallarello, bianco e rosso, destinate a diventare ben presto un must enologico per chiunque visiti la Campania o ne voglia godere anche in altre parti d’Italia.
Vitigno vigoroso e fertile, ma al tempo stesso poco produttivo perché i suoi acini sono piccoli e leggeri, il Pallagrello dà origine a vini di spiccata tipicità, con media alcolicità, con acidità equilibrata e gusto ampio, abbastanza tannico ma non particolarmente adatto all’invecchiamento.
E, per finire, citeremo il Casavecchia, del quale si dice che una barbatella fu ritrovata in un rudere (una casa vecchia, per l’appunto) sempre nell’alto casertano, e messa a dimora. Se ne ricava un vino spettacolare, sempre poche preziose bottiglie (doc “Casavecchia di Pontelatone”), di colore rosso rubino tendente al granato con l’invecchiamento; al naso intenso, persistente, caratteristico; al palato secco, sapido, giustamente tannico, morbido e di corpo.