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La cucina come forma di diplomazia

Se è vero che “quando controlli il cibo, controlli il popolo”, oggi più che mai è fondamentale comprendere come ciò che mettiamo nei nostri piatti funziona come strumento di soft power. Un viaggio culinario nella politica del cibo.
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La Thailandia non è una superpotenza. Ma quando si tratta di cibo, è uno dei paesi più influenti al mondo. Il cibo tailandese non è solo popolare, ma anche tradizionale. È il cibo a tarda notte nei pub britannici e il ristorante che sceglie Peter Parker in una scena del più recente film della saga di Spiderman. Ma il cibo tailandese non è diventato magicamente popolare. Dal 2002 il governo ha promosso il cibo all’estero attraverso una campagna multiforme. La strategia ha avuto un tale successo che ha ispirato una nuova tendenza nella politica estera: la gastrodiplomazia.

Per la prima volta una nazione ha deciso di utilizzare le sue cucine e i suoi ristoranti come avamposti della diplomazia culturale. Data la crescente popolarità dei ristoranti tailandesi in tutto il mondo, nel 2002, il governo della Thailandia ha implementato il “Global Thai Program” come mezzo per aumentare il numero di ristoranti tailandesi. La logica del governo thailandese è che il boom dei ristoranti non solo introdurrà il delizioso cibo tailandese piccante a migliaia di nuove pance e convincerà sempre più persone a visitare la Thailandia, ma potrebbe sottilmente aiutare ad approfondire le relazioni con altri paesi. Il Libano, il Perù, la Malesia, il Vietnam e la Corea del Sud hanno lanciato le proprie campagne di gastrodiplomacy, utilizzando il cibo per estendere l’influenza culturale, incrementare il turismo e promuovere le esportazioni agricole. Oggi più che mai è fondamentale comprendere come ciò che mettiamo nei nostri piatti funziona come strumento di soft power.

Nel 1970, nel bel mezzo della Guerra Fredda, lo statista e diplomatico americano Henry Kissinger notoriamente osservò che “quando controlli il cibo, controlli il popolo”. Anche se Kissinger si riferiva alla gestione delle forniture alimentari globali, la sua affermazione vale anche nel caso delle interazioni persona per persona. Condividere un pasto può aiutare le persone a superare i confini. Allo stesso tempo, in quanto importante indicatore dell’identità culturale, il cibo può diventare anche un motore di conflitti.

Qual è il nesso tra cibo e politica? La cucina è il nuovo forum politico? In che modo il nostro passato culinario riflette i nostri valori, la nostra cultura e le nostre convinzioni? In che modo la politica mondiale si infiltra nel puzzle dei ristoranti che caratterizzano il paesaggio culinario delle nostre città? È utile guardare al cibo attraverso la lente della diplomazia culturale? Quali sono le implicazioni di avere paesi “rappresentati” dalle loro tradizioni culinarie? Quali sono i limiti dei programmi di gastrodiplomazia? E come quantificare il loro successo? Quando il cibo funge da tramite per cambiamenti duraturi, per costruire la pace e la consapevolezza culturale? Quando, invece, diventa un terreno di conflitto e di confronto? Dove dobbiamo tracciare la linea di demarcazione tra la tutela del patrimonio culinario di un paese e il nazionalismo gastronomico? E quando la diffusione delle tradizioni culinarie diventa gastro-propaganda? Quali attori statali e non statali stanno emergendo come i migliori in questo tipo di diplomazia? E come possiamo, come cittadini, contribuire a fare della gastrodiplomazia uno strumento efficace di risoluzione dei conflitti? Sono solo alcune delle domande a cui il simposio “Salon 27 Gastrodiplomacy” – organizzato dal MoMA R&D – il laboratorio di ricerca guidato da Paola Antonelli del Museum of Modern Art di New York – ha cercato di dare risposta.

Tra gli ospiti sono intervenuti: Jon Gray, co-fondatore del collettivo culinario del Bronx Ghetto Gastro, Peter J. Kim, direttore esecutivo del Museum of Food and Drink (MOFAD) e Bill Yosses, ex pasticcere esecutivo della Casa Bianca.

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