“Guido, non c’è scritto da nessuna parte che produrre vini di qualità sia più remunerativo che produrre vini commerciali, lo si fa solo per passione” disse Ives Glories a Guido Busetto all’inizio degli anni 2000, mentre degustava un Chianti Classico di Selvole in una fredda serata invernale davanti al camino acceso. Ma andiamo con ordine: chi sono i protagonisti della nostra storia, e cosa c’entrano con Selvole? C’entrano ovviamente.
Ives Glories non ha bisogno di presentazioni. Preside della facoltà di enologia dell’Università di Bordeaux, professore emerito, autore di una lista impressionante di libri sulla vinificazione ed invecchiamento dei vini rossi, consulente di aziende prestigiose, da Chateu Petrus ad Haut Brion, per citarne solo un paio, chimico e fisico geniale (inventò le membrane per la dialisi, episodio su cui, più avanti negli anni, e costretto lui stesso ad andare in dialisi non mancherà di scherzare), persona con una umanità, un amore per la vita, un cuore grande come pochi. Amava il foie gras, i formaggi invecchiati, il Sauternes, i rossi di qualità.
Guido Busetto non è famoso. È un giornalista, è nato a Venezia, si è laureato alla School of Journalism della Columbia University, New York, ha lavorato per diverse testate, fra cui la Stampa, l’Espresso, il Tg della Rai, il Messaggero, Il Globo, la Radio della Svizzera Italiana, per atterrare infine al Sole 24 dove si consumerà la parte più importante della sua carriera, come corrispondente da Tokyo, corrispondente da Parigi, inviato con base a Milano e corrispondente di guerra. A Parigi, all’inizio degli anni 90, assieme alla moglie, giapponese Nobuko, anche lei giornalista prima col Wall street Journal, poi con la CNN, scopre la passione per il vino e comincia a frequentare, assieme a Nobuko, dei corsi di specializzazione all’Università di Bordeaux. Sarà per la stranezza di una coppia ben assortita, da Venezia al Sol Levante, diventano amici di Ives Glories. Senza secondi fini, perché all’epoca il vino era solo una passione teorica, un esercizio intellettuale stimolato da un paese dove il vino è enormemente più presente che in Italia. Tornati a Milano, nel 1999 comprano Selvole, nel cuore del Chianti Classico, una bellissima azienda di proprietà di un costruttore edile allora in difficoltà. Ed è qui la svolta, quando Ives Glories lo viene a sapere propone a Guido “ti do io una mano” un’offerta che di certo non si poteva rifiutare.
Questo l’antefatto, fino alla sua prematura scomparsa, Ives Glories viene tre-quattro volte l’anno a Selvole, ospite di Guido per 3-4 giorni, ed è un vulcano di idee ed iniziative, se ne occupa a tutto campo. Pianta 7 ettari a Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon ad altissima densità (8000 piante per ettaro, il massimo possibile in Chianti) con barbatelle francesi che si fa spedire da Bordeaux, rivoluzione la cantina (sapeva cosa faceva, era stato lui a progettare la cantina della cooperativa di Saint Emilion), introducendo una termorefrigerazione estremamente flessibile ed efficiente nelle vasche di fermentazione, che consente la macerazione prefermentativa, compra barriques nuove ed usate. Alcune delle barriques che ancora oggi usiamo per il nostro Vin Santo provengono da Chateu d’Iquiem, di secondo passaggio, grazie a lui. La sua prematura scomparsa rappresenta un vuoto enologico ed umano difficilmente colmabile. Selvole l’ha sostituito con un altro enologo di calibro, Gianni Menotti, friulano, premiato due volte come miglior enologo d’Italia da Bibenda e dal Gambero Rosso.
Ma torniamo a questo fazzoletto di terra che circonda Selvole nella valle dove è nato il Chianti Classico. Trenta ettari di vigna, il resto è bosco, fino ad arrivare a 160 ettari totali. Da sempre le due aziende, Selvole e Brolio si osservano dai crinali di due colline contrapposte, qualche chilometro in linea d’aria, memori di una inimicizia antica che per fortuna oggi non esiste più. Un tempo i Malavolti di Selvole e i Ricasoli di Brolio erano come Capuleti e Montecchi. Una valle ricca di storia, perché lì correva il confine tra Firenze e Siena, lungo il fiume Arbia, il confine tra Guelfi e Ghibellini, lì si consumavano frequentissime scaramucce, che in alcuni casi diedero origine a battaglie campali ben più grandi, come quella di Montaperti, il 4 settembre 1260, che vide Siena vittoriosa, una vittoria che viene ancor oggi ogni anno celebrata dalla città del Palio. Dante senz’altro non vi partecipò, perché lo ritroviamo ancora molto giovane nella battaglia di Campaldino, nel 1289, ma ne sentì parlare, probabilmente dal padre. Ricordando la carneficina, in una delle sue espressioni icastiche che lo resero un grande poeta, disse che “l’Arbia si colorò di rosso”, e Selvole ha chiamato la sua Gran Selezione Ponte Rosso, a ricordo di un ponticello teatro della feroce scaramuccia tra i due contendenti, cui fa riferimento il nostro sommo poeta.
Selvole, i cui primi documenti risalgono a poco dopo l’anno 1000, al periodo longobardo, e dove sembra abbia soggiornato persino Barbarossa, già allora era proprietà di una facoltosa ed importante famiglia senese, i Malavolti imparentati con i Cavalcanti di Firenze, che Dante conosceva bene. (“Guido, vorrei che tu, Lapo ed io”) I Malavolti diedero a Siena tre vescovi, professori universitari, politici importanti, consiglieri degli Asburgo durante la loro dominazione della Toscana. Molti dei membri di questa famiglia sono sepolti nella chiesa di San Martino, accanto al castello, che data dal 1200, e conserva ancora molti elementi del restauro seicentesco cui è stata sottoposta. Nelle lapidi delle tombe si legge la storia di un’umanità diversa, più legata alla natura ed attenta ai fatti della vita. Selvole oggi, più che ad un castello assomiglia ad una villa padronale. Anche qui, come a Brolio e in molte altre costruzioni chiantigiane, alla fine del 1800 è stato costruito un edificio in mattoni, a pianta rettangolare sulle fondamenta dell’antico castello, di cui si mantiene il ricordo solo grazie ad alcune stampe dell’epoca. Nei sotterranei della villa, che ancora sono rimasti invece come erano nel medioevo, l’azienda invecchia in un centinaio di barriques di rovere francese i suoi vini migliori.
La Selvole dei Malavolti, che erano detti anche Selvolini, era molto più grande? Certo. Comprendeva Dievole e Borgo Scopeto, oltre ad un paio di proprietà limitrofe, e si estendeva da Vagliagli a Pievasciata. Fu assegnata dalla Repubblica senese ai Malavolti, assieme ad un generoso finanziamento, con l’obbligo di ristrutturare l’edificio principale come castello fortificato, ultimo baluardo senese di fronte a Brolio e Cacchiano, le due punte del dominio fiorentino. Oggi di tutto questo restano delle mura, ed una bella torre, che ancora si erge orgogliosa di fronte a Brolio. I Malavolti restaurarono Selvole, e non una sola volta, in quanto il castello fu assalito ed espugnato più volte. Gli scontri si conclusero con la definitiva vittoria di Firenze, nel 1559, quando con gli accordi di Chateu Cambresis Cosimo de Medici, la cui statua equestre troneggia a Piazza della Signoria a Firenze, decretò la caduta della Repubblica Senese. Assediata dai fiorentini, Siena era diventata una città fantasma passando da 40.000 a 6.000 persone. Siamo vicini alla peste del 1630 immortalata da Alessandro Manzoni, in un periodo in cui ogni generazione dal 1300 in poi, era falcidiata da questa malattia, ed anche Selvole, che faticosamente sta riscoprendo la sua vocazione agricola, si depaupera di mano d’opera. Nei tempi d’oro a Selvole vivevano, secondo i censimenti delle parrocchie 90 famiglie, 3-400 persone, che in questo periodo diminuiscono notevolmente. I contadini avevano fame, e non si sentivano più protetti dai castelli, la maggior parte dei quali, compreso Selvole, era in rovina.
Un periodo di sviluppo tornerà poco più di un secolo dopo, con gli Asburgo Lorena, a partire dal 1737, per durare fino all’unità d’Italia nel 1860. Sotto i Lorena Selvole rifiorisce, i Malavolti vengono ammessi a corte, e le mogli dei Selvolini diventano dame di compagnia della duchessa d’Asburgo. Nello stemma di Selvole due simboli sono importanti: una scala in quanto la famiglia Malavolti fece una generosa donazione ai tempi della Repubblica per la costruzione dell’ospedale di Santa Maria della Scala, di fronte al duomo di Siena, oggi trasformato in un museo, ottendone il diritto di fregiarsene, e l’aquila a due teste degli Asburgo. La Selvole degli Asburgo era un’unità autosufficiente che produceva un po’ di vino (poco per la sua estensione, che allora arrivava a 1300 ettari). I registri dell’epoca, miracolosamente ritrovati in una cantina del castello dicono che si producevano circa 300 quintali di vino, ma poi, grano, avena, orzo, farro, foraggio bestiame e pollame. Il tutto gestito col sistema della mezzadria. Quando la mezzadria finirà, in tempi molto più recenti, alla fine degli anni 60 (l’ultimo contratto di mezzadria di Selvole è del 1968, la rivoluzione studentesca ha avuto dei riflessi anche in campagna) le aziende chiantigiane, scopriranno la loro vocazione unicamente vitivinicola.
Certo Selvole in questo campo può dire la sua: questa valle ha un microclima ed un “terroir”, che sembrano creati apposta per la vigna. Forse non è un caso che il barone Ricasoli di Brolio volesse riprodurre in Chianti, già nel 1800, precisamente in questa valle, i vini di Bordeaux. E forse non è un caso che Yves Glories abbia deciso di metterci mano. Anche nella più accesa calura estiva, l’alternanza tra giorno e notte presenta un’ottima escursione termica, consentendo una maturazione ottimale delle uve, mentre il suolo sembra fatto apposta per vite. Quando frequentava Selvole, Yves Glories insistette per piantare poco più di un ettaro di Cabernet Sauvignon in un terreno un po’ umido e a componente argillosa, che i tecnici locali sconsigliavano come poco adatto alla vite. Quindici anni dopo, è il vino migliore dell’azienda.
Selvole commercializza due linee di vini, la linea Chianti Classico e la linea IGT. La linea Chianti Classico comprende un Chianti Classico annata, (attualmente commercializza il 2018), un Chianti Classico Riserva (annata 2014) ed un Chianti Classico Gran Selezione (annata 2014) di cui si è già parlato per ragioni storico-dantesche. Chianti Classico e Riserva sono sangiovese in purezza, la Gran Selezione contiene il 10% di Merlot e il 10% di Cabernet. A completare la gamma del Chianti Classico, un Vin Santo invecchiato almeno 20 anni in caratelli e barriques, di cui attualmente l’azienda distribuisce l’annata 1996, che assomiglia più ad un buon porto che ad un Vin Santo tradizionale. È frutto del gusto della signora Busetto, che ovviamente preferisce i vini strutturati, e ha la pazienza, tutta giapponese, per attenderne la maturazione. A lei si deve aver aspettato 20 anni per imbottigliare il Vin Santo. Selvole ne produce un migliaio di bottiglie l’anno nelle annate migliori. Nella gamma IGT abbiamo un Merlot in purezza (annata 2015), un Cabernet Franc in purezza (2015) ed un Cabernet Sauvignon in purezza (annata 2015), oltre a due Super Tuscan, il Barullo, che in dialetto toscano vuol dire “scherzo, stupidaggine” un taglio bordolese di Merlot, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, (annata 2015) ed un Super Tuscan più “beverino” il Frescolaia (annata 2015), assemblaggio di Sangiovese al 50% e per il resto Merlot e Cabernet. L’azienda ha vinto diversi premi, Negli ultimi anni ha lavorato proficuamente con la rivista inglese Decanter, il cui direttore, Steven Spurrier si è innamorato dei vini di Selvole, e viene ogni anno (eccetto lo scorso anno causa covid-19) a degustarli in azienda. Difficilmente Decanter quota i vini di Selvole meno di 90 punti, con punte di 95 punti e medaglia d’oro per il Vin Santo, fiore all’occhiello, della produzione aziendale. Si produce anche una limitata quantità d’olio Extra vergine d’oliva, con frangitura a freddo.
Selvole ha anche un agriturismo, con 20 appartamenti, ed una capienza di un’ottantina di posti letti. C’è anche un ristorante dove si possono degustare i vini di Selvole assieme a piatti tipici della regione.